La Gen Z ha rovinato i social network. So che è un’affermazione forte, probabilmente impopolare, ma mi prendo la piena responsabilità per scriverla.
E di modi per dimostrare la mia tesi ce ne sarebbero a bizzeffe: potrei analizzare gli aspetti socio-culturali dei contenuti pubblicati, scandagliare i trend del momento, mostrare numeri e statistiche. Non farò nulla di tutto questo.
Esiste un argomento più convincente per spiegare quello che voglio dire, ed è dannatamente più divertente (cosa che non guasta). Oggi vi racconterò una delle wave più pazze che mi sia capitato di vedere sui social negli ultimi anni.
Gli ingredienti principali sono tre: Catania, TikTok e il marketing. Armatevi di una generosa dose di sospensione dell’incredulità ed immergetevi con me in questo mare di trash auto-compiaciuto. Ne uscirete migliori, o almeno vi sarete fatti qualche risata.
Maggio 2024. Nella sezione “Per te” del mio TikTok compare un video, quello che vedete a seguire. L’ambientazione è chiara, è scritto esplicitamente che si tratta di un “incidente folle a Catania“. La situazione sembra drammatica, eppure bastano solo pochi secondi per accorgersi della burla.
L’uomo disteso a terra, di fianco ad un enorme tagliere pieno di cibo, è lo chef della Trattoria Sapuri. Quello a cui stiamo assistendo non è un vero incidente, è una goffa scenetta che introduce lo spettatore al vero focus del video: la presentazione dell’apericarbonara.
Insomma, è una pubblicità, in tutto e per tutto.
Da buon cacciatore di tesori del trash, come sono sempre stato, vado sul profilo della trattoria e inizio a spulciare qualche altro video. Vedo che il format è sempre lo stesso: inizio che non c’entra nulla col resto (il famoso gancio), presentazione velocissima dei prodotti, capacità attoriali sotto zero, movimenti di macchina da mal di mare, montaggio frenetico, effetti sonori a profusione.
Inoltre, ci sono alcuni elementi ricorrenti su cui voglio puntare l’attenzione, già presenti nel video in alto:
Il prezzo viene detto solo alla fine, ma già nella prima parte c’è una piccola anticipazione, per creare hype e far rimanere lo spettatore ancorato (“Il prezzo? Un attimo, ora te lo dico…”);
Elementi divisivi e palesemente sbagliati (La carbonara viene indicata come “La regina di Napoli”) per generare reazioni e commenti indignati;
Atmosfera surreale e commenti di scherno da parte dei (finti) passanti, perché non ci si prende troppo sul serio;
Montaggio talmente serrato che le frasi vengono tagliate male, perdono le ultime sillabe, per rendere il tutto ancora più confuso.
Alla fine della fiera, il video è super trash ma è divertente, lo guardo e me ne dimentico. Penso, tra me e me, che è solo un goffo modo di sponsorizzare una trattoria di dubbia qualità. Mi sbaglio di grosso, ma ancora non posso saperlo.
Dopo qualche giorno, sui miei feed di TikTok e Instagram iniziano a spuntare altri video simili a quello di Trattoria Sapuri, pubblicati da profili diversi ma con uno stile molto simile.
Tra i migliori mi tocca segnalare questi:
Un bar tabaccheria che fa i “flat croissant” senza saperne pronunciare il nome, con un dissing a Iginio Massari;
Un panificio che rischia di essere sfondato da un’auto perché fa i panuozzi super pistacchiosi;
Una pizzeria che sventa una rapina con un tagliere pieno di cibo pistacchioso;
Una kebabberia sul rischio del fallimento salvata dal kebab super pistacchioso;
Una pinseria con tanti giochi da tavolo che sta per essere presa a palate;
Una gastronomia che sfama un bambino venuto da Napoli con la carbonara.
Tutti i video hanno tre cose in comune: sono sponsorizzazioni di attività commerciali catanesi, riguardano il cibo e sono realizzati in modo molto trash.
Ovviamente hanno tutti valanghe di visualizzazioni, spesso a milioni, condite anche da migliaia di like e commenti. Un successo strepitoso, non c’è che dire.
Questo mi pare il momento adatto per rivelarvi un dato importante: io non vivo a Catania, anzi non ci sono mai stato. In più, non seguo e non ho mai seguito profili dedicati alla cucina, né su TikTok né su Instagram.
Dunque, com’è possibile che io sia costretto a vedere tutti questi video di foodpornari catanesi? Perché continuano ad apparire senza sosta sui miei feed in due social diversi? Cos’ho fatto di male all’algoritmo?
Col passare delle settimane la situazione si fa ancora più demenziale. Se finora avevo visto questo strano format usato solo per ristoranti e trattorie, in pochissimo tempo si allarga anche ad altri tipi di attività commerciali, anche quelli più inaspettati.
Un salone da parrucchiere con una clientela molto vivace;
Uno studio dentistico in cui si cammina senza andare da nessuna parte;
Una profumeria che aiuta giovani in difficoltà;
Un’officina che spiega (con fare piacionissimo) come avviene una rettifica;
Una ditta di porte, infissi e ceramiche con un saggio titolare che pronuncia l’immortale frase:
Non mi credete, vero? Farei fatica anch’io, non lo nego. Allora sentitelo con le vostre orecchie, il video è questo.
Anche in questo caso, il successo è immediato. Alcuni di questi video superano ampiamente 3 milioni di visualizzazioni, altri hanno numeri più contenuti, ma sta di fatto che sono cifre ben più alte da quelle che ci si potrebbe aspettare da contenuti di questo tipo.
Cosa li rende così accattivanti? Perché vanno così forte sia su TikTok che su Instagram?
A questo punto, gli indizi sono troppi. I miei feed sono intasati di video di catanesi che provavano a vendermi qualcosa, tra kebab, pizze, profumi, porte o altro ancora. I miei amici mi mandano quotidianamente messaggi per segnalarmi che anche loro sono stati colpiti da quest’invasione.
I catanesi si stanno prendendo TikTok.
Ma non è un’invasione, non è un glitch nella matrice. È solo un’enorme campagna di marketing, orchestrata da una furba agenzia di social media management di Catania.
La verità non è così difficile da scoprire, perché è la stessa agenzia a rivelarsi. La formula viene spiegata, è tutto alla luce del sole. Nessun mistero, solo pochi scrupoli e tantissimi trend da cavalcare.
Tutti i ristoranti, le pizzerie, le aziende e gli altri esercizi commerciali di cui vi ho parlato si appoggiano a quest’agenzia di comunicazione per far crescere i numeri sui loro profili social, per farsi vedere e far aumentare i guadagni. E non è importante che lo facciano a suon di trash, quello che conta è fare visualizzazioni.
Non è un caso, dunque, che nei video ci sia un tasso di cringe da far lacrimare gli occhi. Quel cringe è voluto, è fatto apposta per generare sorpresa, ilarità, disgusto, imbarazzo, livore. Un’emozione, una qualsiasi.
E quindi via a quintalate di pistacchio ovunque, al trapianto della carbonara a Napoli, ai bambini che vengono usati come cavalli di Troia per intenerire (prima) e vendere il prodotto (poi). Vanno bene anche la le tirate di capelli, le palate al marciapiede, il maschilismo tossico, gli incidenti simulati.
Vanno bene, persino, gli stessi format rubati dall’estero e riclicati a più non posso. E se l’algoritmo non ti premia una volta, ci si riprova finché non arriva il vento giusto.
Ormai ho superato da un pezzo i 30 anni, non dovrei più sorprendermi. Eppure, ogni volta che mi accorgo dei piccoli cambiamenti generazionali nel modo d’interpretare la realtà, resto sempre a bocca aperta.
Badate bene, non è un giudizio di valore, non è una condanna. Tocca spiegarmi bene, per evitare fraintendimenti.
La campagna di marketing portata avanti dall’agenzia di Catania e dai suoi clienti è indiscutibilmente un successo. I numeri sono altissimi, anche per i contenuti meno “provocatori”, anche se il grosso lo fanno sempre quelli più assurdi o quelli di cattivo gusto.
Il successo è talmente evidente che sono addirittura nate imitazioni e parodie, che usano lo stesso stile e cercano di cavalcare l’onda. Funziona tutto alla grande, ormai è un meccanismo che si auto-alimenta.
E non è una sorpresa, ci mancherebbe altro. Sono anni che sui social il marketing è diventato trash, punta più ad intrattenere che a vendere direttamente. In origine era Taffo, poi sono arrivati il social media manager di Unieuro, Angela e la “bela fisica”, il commesso tifoso del Napoli, New Martina, “con mollica o senza”.
La mia impressione è che siamo già entrati in una nuova fase, con figure più peculiari che stanno emergendo: oltre a quelle di cui ho già parlato, segnalo la Dottoressa Amelia, l’Antico Forno Santa Caterina, quello che sbatte le pale per vendere auto. Ultima chicca: l’account ufficiale Samsung dei Paesi Bassi, che pubblica roba così fuori di testa che faccio fatica a descriverla.
Insomma, l’asticella del trash si sta alzando (o abbassando, sono punti di vista) sempre di più in pochissimo tempo. All’alba dei social network (2008-2013) servivano anni per poter creare una wave, per imporre uno stile riconoscibile, per fare in modo che quel linguaggio diventasse comprensibile ad un pubblico ampio. Adesso avviene tutto in pochi mesi, a volte basta qualche settimana.
Il vero problema è che ormai siamo entrati in un loop. I format, i contenuti, i prodotti sono sempre gli stessi. Cambia l’intensità delle urla, cambia l’oggetto della provocazione, tutto il resto rimane sostanzialmente invariato.
Il trash di qualche anno fa torna in versione remastered, con nuovi linguaggi e nuovi mezzi, ma trash era e trash rimane.
La domanda che mi sono fatto in questi mesi, studiando l’inesorabile crescita dei video trash catanesi, è stata sempre la stessa: perché funzionano così dannatamente bene?
La risposta, per me, è sin troppo semplice: è colpa della Gen Z. L’ho detto all’inizio, non ci dovrebbero essere sorprese a questo punto. Era qui che volevo arrivare.
Se questi video hanno fatto così tanto successo, è perché hanno saputo intercettare alla perfezione il loro target di riferimento (la Gen Z appunto), soprattutto su TikTok. Un target che si è dimostrato molto attratto da contenuti trash e cringe, che già da un paio d’anni è capace d’indirizzare l’attenzione degli algoritmi verso format discutibili, almeno agli occhi delle generazioni meno giovani.
E sarebbe un problema di poco conto se questi benedetti algoritmi proponessero davvero contenuti basati sugli interessi degli utenti, ma sappiamo tutti che non è così. Quando parte una wave, parte per tutti.
Se l’algoritmo intuisce che c’è un forte interesse su un determinato format, stai sicuro che lo farà vedere a quante più persone possibili, anche quelle che non c’entrano assolutamente nulla coi contenuti dei video.
La colpa della Gen Z è di essere cascata all’interno del meccanismo orchestrato dalle società di marketing, diventandone l’ingranaggio centrale, quello che permette a tutto il carrozzone di andare avanti e diventare ancora più chiassoso.
E forse è una colpa indiretta, sto volutamente esagerando il tono del discorso, eppure produce effetti reali. La Gen Z è stata capace di portare al successo contenuti che altre generazioni avrebbero fatto fatica a prendere sul serio, ha già creato problemi assurdi frutto solo di una concentrazione delle attenzioni molto più alta del necessario.
Non che i millennial o i boomer siano mediamente più svegli, sia chiaro. Non voglio difendere i vecchi, non voglio attaccare i giovani. Mi sembra solo che, in questo caso specifico, la Gen Z abbia contribuito molto più delle altre generazioni.
Tanto, alla fine della fiera, ci perdiamo tutti. La nuova wave di cui parlo è un meccanismo auto-distruttivo, che sta provocando un impoverimento della varietà di contenuti di cui potremo valutare la gravità solo tra qualche anno.
L’algoritmo di TikTok – e in modo non dissimile quello di Instagram – è costruito non per farvi vedere contenuti di qualità, ma per mostrarvi quello che va di moda, secondo i vostri interessi (ma non troppo). E quello che va di moda, spesso, è un format riciclato mille volte.
A maggio di quest’anno, Alessandro Mannucci scriveva su Rolling Stone che “i food pornari catanesi si stanno mangiando il tuo algoritmo”, ed era vero. Anzi, è ancora più vero adesso, che l’algoritmo sembra sia stato completamente divorato dai contenuti di cui vi ho parlato.
Non ce l’ho davvero con la Gen Z, anche se ormai mi sono arreso al fatto che mediamente ha gusti troppo lontani dai miei. Sto generalizzando, sto facendo un po’ di sarcasmo, prendete queste parole con la dovuta ironia.
Non ce l’ho nemmeno coi catanesi, ci mancherebbe altro. Vorrei scrivere che “ho tanti amici catanesi” e sarebbe anche la verità, ma frasi di questo genere sono diventate ormai troppo cringe.
Quello di cui vi ho parlato finora non è tanto un problema generazionale, è un problema tecnologico (ed è per questo che ne parlo su SmartWorld). Il responsabile ultimo della situazione attuale dei social è l’algoritmo, che decide vita o morte dei contenuti, al netto della loro qualità.
Si fa presto a fare milioni di visualizzazioni con contenuti provocatori, con le urla e con gli eccessi. Si fa ancora più presto su TikTok, che sembra un social fatto apposta per dare spazio a tali contenuti.
Bisognerebbe creare un algoritmo più etico? Sarebbe utile cambiare i parametri di valutazione dei contenuti, preferendo la qualità ai numeri puri? E chi dovrebbe stabilire cos’è davvero la “qualità”?
Sono domande troppo grandi e troppo complesse, non è questo il momento per discuterne. Quello che è più urgente, per me, è salvare i catanesi da TikTok e dalle agenzie di comunicazione.
Certo, i numeroni sui social piacciono a tutti, ma poi cosa rimane? A lungo andare, l’immagine di un’intera città rischia di essere compromessa perché l’algoritmo ha deciso di mostrare solo il suo lato trash. Il successo sui social, però, è passeggero, mentre l’onta del trash fa fatica ad essere ripulita.
Quando anche la wave dei food pornari catanesi sarà passata, forse vedremo con più chiarezza la situazione. Ma a quel punto ci sarà già una nuova wave, probabilmente peggiore, che invaderà il nostro feed su TikTok e ci distrarrà da tutti questi pensieri.
Magari sarà il grande ritorno dei gattini, gli unici esseri in grado di sconfiggere qualsiasi algoritmo per qualsiasi generazione.
L’articolo Cringe, pistacchio e “ignoranza”: come i catanesi hanno conquistato TikTok sembra essere il primo su Smartworld.
Fonte: SmartWorld
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